giovedì 21 ottobre 2010

Appunti di Neoclassicismo

Con il termine “neoclassicismo” si usa indicare il periodo compreso, approssimativamente, fra la metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, nel corso del quale si è convinti di poter raggiungere “un nuovo classicismo”, operando il recupero, in età moderna, della civiltà antica.
Il neoclassicismo trova giustificazione storica nel razionalismo illuminista che, nell’opposizione agli eccessi, alle stravaganze, alle complicazioni prospettiche del barocco, cerca quella chiarezza, quella oggettività che sembra di poter riconoscere solo nella cultura classica.
Già prima che abbia inizio la teorizzazione classica abbiamo riscontrato la tendenza a schiarire i colori, ad evitare i contrasti chiaroscurali, a dare forma geometrica alle strutture: alcuni edifici della prima metà del Settecento mostrano caratteristiche indubbiamente classiche giungendo all’imitazione palese dell’antico.

Il vero e indiscusso teorico neoclassico è il tedesco Johann Joachim Winckelmann (Stendal, Germania, 1717- Trieste, 1768): egli ritiene che l’opera d’arte sia espressione del bello ideale, raggiungibile non imitando la natura, ma emendandola dai suoi difetti, o meglio, scegliendo da essa le parti più belle e fondendole insieme.
E’ questa una vecchia teoria che risale ai romani e che, dal rinascimento in poi, è stata costantemente ripresa: è appena il caso di ricordare che parole analoghe sono state usate da Leon Battista Alberti e da Raffaello. La differenza tra Winckelmann e i suoi predecessori sta solo nel maggior rigore con cui la teoria è accettata e rielaborata da lui. Quelli cercano il bello ideale senza staccarsi dai problemi dell’età in cui vivono, senza rinunciare al linguaggio contemporaneo, il Winckelmann invece, ritenendo (forse con ragione) che soltanto i greci abbiano raggiunto il bello ideale, assume l’opera greca come modello da imitare. Il ragionamento è astorico, pretendendo che il bello ideale dei greci sia non espressione di un particolare momento storico unico e irripetibile, come, in maniera assai diversa, quello di Raffaello o di altri, ma eterno e valido per ogni periodo, anche per quello contemporaneo a lui.
Perciò il neoclassicismo è una corrente culturale ben definita e molto diversa da quel classicismo che, ora più palese ora più nascosto, è presente in tutto il corso della storia dell’arte europea, soprattutto italiana, anche quando, come nel medioevo, sembra scomparso.
L’opera d’arte, come visualizzazione del bello ideale, dovrà superare, secondo il Winckelmann, l’agitarsi delle passioni umane, il movimento, il dramma.
Le teorie di Winckelmann, che dalla Germania si trasferisce a Roma, ebbero un gran seguito: giungevano nel momento giusto per interpretare una tendenza culturale, comune a tutta l’epoca, di reazione non soltanto al barocco ma anche a ciò che di capriccioso vi era nel rococò, ritrovando la misura classica, con un fervore di studi sull’antico cui avevano dato nuovo entusiasmo le recenti clamorose scoperte archeologiche di Ercolano (1719) e di Pompei (1748): le due città romane, scomparse repentinamente in seguito alla tragica eruzione del Vesuvio del 79 d.C., offrivano, soprattutto la seconda, per la maggior facilità di scavo, una straordinaria abbondanza di oggetti antichi che divennero modello indiscusso di imitazione, dando luogo a quello che fu definito “stile pompeiano”.
Al Winckelmann si affiancano altri teorici. Il pittore tedesco Anton Raphael Mengs (Boemia, 1728- Roma, 1779), suo amico e ammiratore, aggiunge, accanto all’imitazione dei greci, quella di Raffaello e del Correggio. In pittura, infatti, non essendo sopravvissuti capolavori dell’antichità, se non in poche copie artigianali, sembrava infatti che soltanto questi artisti potessero costituire i modelli assoluti, essendo riusciti a ritrovare la grazia e l’equilibrio ellenici.

Fin qui abbiamo esaminato il neoclassicismo come un movimento culturale che persegue un fine estetico: il bello ideale. Sarebbe però limitativo considerarlo solo da questo punto di vista, perché il fine estetico non può essere disgiunto dall’ideale etico di un’epoca che è conseguenza sia delle teorie illuministe, sia della situazione storica.
Abbiamo già rilevato come, durante tutto il Settecento, il razionalismo illuminista conduca alla graduale presa di coscienza collettiva della libertà naturale dell’uomo: se tutti gli uomini sono dotati di ragione, e se la ragione permette di “capire”, di “far luce” su tutto ciò che si è voluto lasciare in ombra per favorire la sottomissione, ne consegue che “tutti gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti”, come sancisce  solennemente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea Nazionale francese pochi giorni dopo l’inizio della Rivoluzione. Per il raggiungimento della libertà, per la salvaguardia della dignità, occorre combatterere, e se la massa non è ancora in grado di farlo, dovrà esserci qualcuno, anche uno solo, che assuma su se stesso l’onere, conducendo fino in fondo la battaglia. Nasce nuovamente il mito dell’eroe, l’uomo leggendario che, da solo, salva l’umanità. Questo eroe, che non è possibile riconoscere accanto a noi nella piattezza meschina della realtà quotidiana, appare, agli occhi degli intellettuali dell’epoca, essere esistito nell’antichità.
Quanto più ci si avvicina alla Rivoluzione francese, ossia all’azione liberatoria dalla tirannia, tanto più si vedrà il modello eroico nella leggenda della Roma repubblicana. Quando poi Napoleone, con l’impeto delle sue campagne militari, travolgerà le monarchie europee, sembrerà di vedere in lui l’uomo destinato a portare ovunque le idee e le conquiste della Rivoluzione, stabilendo una seconda fase del neoclassicismo, una fase imperiale, quasi una reincarnazione di Giulio Cesare. Per questo molti intellettuali hanno creduto in Napoleone; per questo molti altri sono rimasti delusi dalla sua successiva conquista del potere assoluto.

Ideale estetico e ideale etico sono dunque i due poli entro i quali si muove il neoclassicismo, talora con risultati artistici di grande valore, soprattutto nel campo della poesia e della musica, talaltra invece con retorica e freddezza, soprattutto nel campo delle arti visive, perché, come è utopico e astorico rifugiarsi nel mondo antico credendo di trovarvi quei modelli di vita che non vediamo intorno a noi e ai quali aspiriamo, così è utopico e astorico pretendere di raggiungere la grandezza dell’arte classica imitandola.
Comunque, riprendendo la distinzione del neoclassicismo in due fasi, quella prerivoluzionaria e rivoluzionaria da un lato, e quella imperiale dall’altro, corrispondenti rispettivamente agli ultimi decenni del Settecento e ai primi dell’Ottocento, occorre sottolineare che, almeno nelle arti visive, la fredda imitazione dell’antico, l’esteriorità, sono caratteristiche, più che del primo, del secondo momento, il cosiddetto “stile impero”.
Questo tipo di classicismo, del resto, è particolarmente gradito a tutte le dittature (e perciò anche a quella napoleonica) perché sembra loro il simbolo di quell’ordine, di quell’obbedienza alle norme, di quella grandezza che esse sostengono di portare ai popoli soggetti; non a caso, poco più di un secolo dopo, lo stesso Hitler terrà alcuni dei suoi discorsi dai Propilei di una monumentale piazza neoclassica di Monaco di Baviera.

Roma, capitale dell’antico impero romano, è la capitale del neoclassicismo. Ma le teorie neoclassiche sono comuni a tutto il mondo occidentale, cosicché non vi è sostanziale distinzione fra l’indirizzo artistico delle varie nazioni; inoltre, guida spirituale è ormai diventata la Francia, o meglio Parigi ( e lo sarà almeno per tutto l’800 e per i primi anni del ‘900) perché gli straordinari eventi politici che essa ha vissuto (Rivoluzione e impero) l’hanno proiettata nell’avvenire e ne hanno fatto il principale polo d’attrazione.

1 commento:

  1. prof ha detto che era lungo.. non mi sembra... anzi è perfetto anche per approfondire quello che dobbiamo studiare!

    RispondiElimina